Marocco Senza Veli

terzo capitol0

Atlantis

Capitolo 3

La signora con il velo rosa mi svegliò dal torpore con un leggero colpetto sulla spalla. “Aquí” disse, sorridendo. Dopo qualche minuto, il tassista mi lasciò a un incrocio in mezzo all’autostrada che collega Tangeri a Larache, indicando una grande collina a cinquanta metri di distanza. Mi avvicinai lentamente alla collina, stordito dal riverbero del sole, fino a quando notai un cancelletto sgangherato all’inizio di un piccolo sentiero che conduceva a una baracca di cemento squadrato. Lì incontrai Hamza, il guardiano del sito; alto come un bambino troppo cresciuto, ma con la grinta di un toro, aveva la pelle di un marronaccio olivastro, ruvida come cotenna, un nido selvaggio di capelli riccio carbone e due occhi più neri del petrolio saudita.

“Salam alaikum amigo! Hablas español?” vociò allegramente.
“Hola, claro!”
“Bien! De dónde eres?”
“De Italia.”
“Chi va piano va sano e va lontano! Ven conmigo, vamos a visitar el sitio juntos… te voy a explicar todo!” mi disse, dandomi una pacca sulla schiena. Non sapevo se fosse un impostore, ma Lixus è uno dei siti archeologici più antichi del Marocco, prima un avamposto fenicio, poi città Cartaginese, infine cadde sotto il dominio romano dopo la distruzione di Cartagine. Una guida non dovrebbe far male, no?

“Sabes que Italia financia todas las obras arqueológicas aquí en Lixus?”
“Ah qué bueno! Me hace sentir orgulloso de Italia!”
“Claro! Let’s go!” esclamò gioviale, camminando lungo il sentiero.

“Ves esto? Era un baño Romano! Un hammam!” disse dopo cinquanta metri. “Y aquí… ven, ven aquí… prensa de oliva! Para hacer aceite; zeyt al-zeytun, en árabe,” aggiunse, indicando una enorme macina di pietra.

“Aquí había un mosaico de Neptuno. Te voy a enviar una foto – ” fece una pausa, per scacciare uno sciame di mosche particolarmente affezionato al suo cesto capelli.

“Mira que maravilla: un anfiteatro!” quasi urlò, gettando le mani al cielo, davanti a una base circolare di pietra calcarea consumata dalle intemperie e costruita sfruttando la ripida superficie di una collinetta. Percorreva il sito con lunghe falcate, gesticolando con le braccia e indicando i vari dettagli come un forsennato, prima mostrandomi le rovine di una basilica romana trasformata in una moschea, poi una cinta muraria che terminava in una torre fatiscente e infine una serie di case nobiliari.

“Soy un Arab Muslim, no un Beréber,” mi disse verso la fine del tour.
“Y cómo lo sabes?”
“Qué?”
“Que eres un Arab Muslim y no un Beréber…”
“Por que lo sé!” rispose, gesticolando con le mani come se avessi appena posto la domanda più stupida di questo mondo, il che mi convinse a non indagare ulteriormente.

Optai per una passeggiata fino a Larache, un’importante città portuale sulla costa atlantica. Hamza indugiava nei miei pensieri. Sono cresciuto vedendo le giganti statue di Buddha venir distrutte in Afghanistan dai talebani, Nimrud e Palmira rase al suolo dai miliziani dell’Isis in Iraq e Siria. O semplicemente i siti ellenistici e bizantini trascurati dalle istituzioni in Turchia. Tutto ciò ha fatto sedimentare nel mio subconscio l’idea che ai musulmani, in linea generale, non fregasse nulla di tutta la storia, l’arte e la civiltà non legata all’Islam. Ma Hamza sfondò questo muro di pregiudizio come un toro di Pamplona. Ogni volta che passava vicino a un muro, una colonna o un altare dava piccoli tocchi di affetto qui e là. Aveva ereditato quel ruolo da suo padre che, a sua volta, lo aveva ereditato da suo nonno. Quelle rocce, quelle colonne e quei muri facevano parte della sua famiglia.

Raggiunta l’entrata della medina di Larache, mi fermai per alcuni istanti a contemplare il portale d’ingresso. Non furono i mattoncini color terra di Siena, la calce bianca o gli smalti azzurri a colpirmi; fu lo strano silenzio al di là della soglia, un silenzio che nemmeno le fiamme del sole africano riuscivano a scalfire. 

Un sole capace di sciogliere tutta la realtà sensibile, incluso il suo stesso cielo, con il suo potente ruggito di fuoco… ma non quel silenzio. Quel silenzio senza fondo che governava tutto ciò che rimaneva al di là della soglia di quel portale come un suo protettorato fresco e ombroso. Non si entra necessariamente in un paese nel momento esatto in cui si varcano i suoi confini; può avvenire a scoppio ritardato, lentamente, casualmente. Capii di entrare in Marocco nel preciso istante in cui varcai quel portale. Non sembrò nemmeno di passare attraverso una porta; mi parve di immergermi in una cascata di resina calda, capace di evocare il passato, cristallizzare il presente e ritardare il futuro. Risatine e mormorii agli angoli delle finestre, botteghe nascoste ricolme di pesce salato, piramidi di cipolle rosa, giare di curcuma e ampolle di essenze esotiche; gatti furtivi, vecchie accovacciate, minareti traforati e alberi di arancio che esplodevano di frutti dorati nelle isolate piazzette vestite di ocra, bianco e turchese. Stregato dal suo meraviglioso incanto, deliziosamente perso nelle sue meraviglie incantate, mi inoltrai nel labirinto di vicoli bianchi e blu, seguendo a volte un fruscio di seta, a volte voci bianche che rincorrevano un pallone, a volte delle strane vesti da druido nere col cappuccio a punta che svanivano magicamente nei vicoli ciechi. Finii a fluttuare anch’io in quel mondo surreale smaltato da uno strato scintillante di atemporalità, dove tutto aveva preso la forma di un sussurro.

“Qué lindo!” un’esclamazione squarciò il silenzio. Mi girai; un gruppo di turisti spagnoli affondò in quell’incanto come un coltello nel burro. Gilipollas, pensai e cambiai strada. Quegli stronzi avevano rovinato tutta l’atmosfera… e se fossi stato tu a rovinare l’atmosfera a loro? In effetti, vogliamo sempre essere gli unici turisti in circolazione… 

Presi un taxi condiviso diretto ad Asilah per 20 dirham. Una volta nel taxi iniziai a chiedere se qualcuno parlasse francese o spagnolo.

“Dónde vas?” mi interpellò un bietolone rasato a zero con un paio di occhiali da sole wayfarer e una bella scottatura che gli colorava di aragosta la faccia e la testa pelata.

“Asilah. Sabes dónde tengo que bajar?”
“Yo voy allá también, podemos ir juntos,” rispose con uno strano accento argentino. Era anche troppo pallido per gli standard marocchini. Si vedeva dalle parti di pelle senza scottatura.
“Ok, perfecto, gracias.”

“De dónde eres?”
“Italiano.”
“Ah! Las chicas Italianas me encantan!”
“Ah right,” sorrisi, a disagio. “Qué haces aquí?”
“Yo vivo a Marrakech, pero mi familia es de Tetouan. Estoy aquí de vacaciones, voy a visitar Asilah.”
“Estudiaste español en Argentina?”
“No, no! Por qué?”
“No sé, tienes acento argentino…”

Scendemmo dal taxi e ci incamminammo verso il centro città, percorrendo un lungomare adornato con palme e fontane. “Asilah’s origins date back to 1500 BC, when the Phoenicians settled in a nearby area,” iniziai a leggere alcune informazioni sul mio telefono.
“The city itself had been built by the Idrisid dynasty, during the 9th century, and later rebuilt under the Cordovan caliphate in the 10th century. Conquered by the Portuguese, and later by the Spanish, it became a pirate base in the 19th century –”

“Yo estoy haciendo Ramadán, pero si tu quieres puedes comer algo aquí,” mi interruppe il tipo. Alzai lo sguardo; stava indicando una serie di ristoranti sul lungomare. 

Apparentemente non gliene fregava nulla delle info che stavo leggendo. Rifiutai educatamente; non avevo fame, nonostante l’ultima volta che avessi ingerito del cibo risaliva a quella mattina, in Spagna, poco prima di imbarcarmi sul traghetto per il Marocco. Riprendemmo a camminare. Il tipo si tolse gli occhiali da sole e iniziò a pulirli. Notai alcune tracce secche di crema solare tra le pieghe del naso.

“Este tatuaje… judío? Jewish?” chiese, indicando il tatuaggio dietro il mio orecchio.
“No, mi estrella tiene cinco puntas,” risposi.
“Bien… como la bandera de Marruecos. No me hubiera gustado la estrella con seis puntas.”

Lo guardai esterrefatto. Ma come diavolo puoi dire qualcosa del genere a qualcuno che hai appena conosciuto?! 
Non feci in tempo a replicare che intravidi le porte della medina ergersi di fronte a noi, alla fine del lungomare. 

Non appena raggiungemmo l’entrata, fummo circondati da un gruppo di tipi loschi; uno di loro iniziò a mostrarmi vari smartphone e I-Pad, chiedendomi se volessi acquistarne uno. Gli altri iniziarono a parlare in arabo con il mio nuovo compagno di viaggio, lanciandomi occhiate furtive. Non avevo idea di cosa stessero dicendo; lo guardai, come per dire: allora?

“Entonces, qué quieres hacer?” lui mi chiese bruscamente, perdendo tutto il suo calore.

Proprio strano questo tipo! Pensavo che volesse visitare la città assieme… meglio che mi faccio i cavoli miei. “I am going to go visit the city now. It was a pleasure to meet you and thank you very much,” dissi in inglese, per rimarcare la distanza. Poi girai i tacchi e oltrepassai il grande portale di pietra. Mi lasciai quel losco gruppo alle spalle, facendo leva su tutto il mio autocontrollo per non girarmi a verificare se mi stessero seguendo.

Un vecchio appoggiato a un muro iniziò a camminare nella mia direzione non appena mi vide attraversare il portale.

“Hola, cómo estas!?” mi chiese, avvicinandosi tutto molleggiato mentre la sua palandrana bianca veniva sbatacchiata dal vento. Non avrei saputo dire che età avesse; probabilmente sulla cinquantina o sulla sessantina, ma il suo paio di occhiali da sole in stile Kanye West e il suo corpo atletico rendevano impossibile ogni stima.

“Bien gracias…” risposi senza manco degnarlo di uno sguardo.

“No soy guía turística! No quiero dinero; no tengo nada que hacer, si quieres podemos hacer un paseo juntos,” si affrettò a dire, come se avesse percepito la mia diffidenza. Improvvisamente abbassò la voce e mi chiese in inglese: “Who was that guy with you? Where did you meet him?” lanciando occhiate verso l’entrata della medina. Guardai nella stessa direzione, avvertendo improvvisamente quel leggero senso di nausea che precede una fiammata d’ansia.

“I don’t know, I just met him on the taxi… why are you asking me this?”

Si rigirò verso di me e mi guardò dritto negli occhi. “He is a bad person. Let’s keep going,” disse, facendo un passo verso il centro della medina. “You see the colours of the doors and windows? They change according to the neighbourhood.” Iniziò a indicare le persiane delle case. “Green is Muslim, blue is Jewish, black is…”

Non mi ricordo nemmeno se avesse detto inglese o portoghese. Il mio battito cardiaco continuava ad aumentare, mentre un unico pensiero continuava a ronzarmi in testa come un drone chiassoso. Ma perché deve essere tutto così losco? E perché mi dovrei fidare di questo vecchio qua?

“… and this is why it looks like that. Yallah!” il vecchio mi prese per il braccio, distraendomi dal vortice dei miei pensieri. Percorremmo una via che costeggiava un lungo muro merlato di blocchi di tufo, separando la città vecchia dall’oceano burrascoso, pochi metri più sotto. Raggiungemmo un altro portale di pietra e da lì ci tuffammo nell’intricato mosaico di vicoli. La calce bianca delle case riverberava la luce del sole con una tale intensità da rendere inutili persino gli occhiali da sole. Sempre tenendo il muro di pietra alla nostra destra, continuammo a camminare finché non incontrammo un ultimo portale, all’estremità sud della medina. Ma invece di attraversarne la soglia, il vecchio indicò una transenna appoggiata verticalmente, a mo’ di scala, sull’alto muro di pietra alla nostra destra.

“Come with me… I’ll take you to a secret place,” bisbigliò il vecchio, guardandosi attorno. “It used to be open, but now they closed it,” aggiunse, prima di iniziare ad arrampicarsi sulla transenna. Avrei dovuto fidarmi? Avrei dovuto seguirlo? La situazione era ormai abbastanza sospetta di suo, ci mancava solo che mi mettessi a fare Prince of Persia. Guardai in su, verso il vecchio; mi stava facendo cenno di seguirlo. Ma se quel losco tipaccio pelato mi sta aspettando al di là di questo muro? Mi guardai attorno; non c’era nessuno. Ah, merda! E saltai sulla transenna, seguendo quel vecchietto che sembrava uno di quei jinn di quelle antiche favole arabe che passano la giornata a tessere trame tra cupole smaltate, guglie da sogno e ombre sottili. Dalla transenna mi arrampicai su un sottile cornicione che correva lungo il muro di cinta. Il vecchio jinn era già saltato su un secondo cornicione, ancora più alto e mi stava aspettando con la mano tesa.

Con il suo aiuto mi issai sul secondo cornicione e da lì ci arrampicammo su un davanzale posto sulla sommità del portale che avevo visto prima. Buttai giù gli occhi: eravamo ormai a circa tre metri di altezza. Dall’arco scivolammo su una gronda che correva tutt’intorno al perimetro di una piccola torre imbiancata a calce. Potevo avvertire l’oceano che infuriava dall’altra parte della torre.

“Old cemetery…” sussurrò il vecchio jinn, con l’indice puntato verso il basso. Non capii cosa volesse dire; non vedevo alcun cimitero! Aggirammo la torre con le spalle incollate al muro. E una volta girato l’angolo…

Uno stretto passaggio conduceva all’estremità finale dei bastioni della città, costruiti in modo tale da finire come un’incudine a strapiombo sull’oceano. Iniziai a camminare verso l’estremità, verso l’oceano. Notai delle scalette alla mia destra che scendevano dalla piccola torre bianca su cui ci eravamo arrampicati e finivano in una terrazza nascosta, sospesa pochi metri sopra le onde; più o meno all’altezza della transenna appoggiata a mo’ di scala, ma dall’altro lato del muro. La terrazza, pavimentata con steli smaltate di diversi colori, ognuna decorata con un disegno differente, conteneva una piccola cripta con pareti bianche, porte verdi e una cupola blu. Il cimitero…

Il candore luminoso rifletteva su quei bastioni color tartufo e su quegli infissi blu, verdi e neri, creando un contrasto di colore così unico da rendere quell’angolo nascosto di Asilah uno dei luoghi più rilassanti in cui sia mai stato. Sembrava veramente un posto segreto. Uno di quegli angoli nascosti a cui pensi ogni volta che ti assale lo stress, i problemi e le paturnie; uno di quei posti in cui ti basta un materasso e un telo di cotone azzurro su cui stenderti per lasciarti assorbire dal sole, dal vento e dall’oceano e dissolverti nella quiete eterna. Se non fosse per quella manica di stronzi che mi aveva messo ansia…

“Do you smoke hashish?” mi chiese il vecchio jinn, mostrandomi i suoi denti macchiati di tabacco.

“No, I don’t. I quit a while ago…” risposi, il mio sguardo perso nell’Atlantico. Continuai a camminare verso la fine del bastione, come in trance. La mia mente iniziò a ripescare quelle antiche mappe medievali che raffiguravano gli oceani come vastità terrificanti popolate da terribili creature marine. Continuavo a guardare l’estremità di quel bastione. Aveva una forma così strana, come se fosse un ponte. Un ponte senz’altra fine che quelle profondità ctonie, infinite, primitive, bibliche.

Che razza di posto è questo… un ponte che termina nell’oceano… sembra l’ingresso di Atlantide. Platone non aveva forse scritto che Atlantide si trovava più o meno qui? Un tuono profondo, baritonale e nettunico iniziò a sorgere da quell’abisso d’acqua bollente. Arrivavano delle raffiche di vento così impetuose e improvvise che avrebbe potuto facilmente gettarmi giù dal muro. Ma non me ne importava, ero troppo occupato a guardare l’Atlantico. Mi sono sempre chiesto se l’oceano e il mare avessero un orizzonte diverso.
È solo un trucco della mente che fa sembrare l’orizzonte dell’oceano così infinitamente più esteso di quello del mare?

“Nice place! If you have your phone, I can take a picture of you,” disse il vecchio, insinuandosi nei miei pensieri.

“My phone…” dissi, la mente ancora intenta a mareggiare in quei golfi mistici di flutti e spuma. “My phone!” Tastai le tasche del k-way. “Shit!”