Una forte scossa mi sveglia di soprassalto. Mi guardo attorno. Una fila di sedili di fronte, un oblò a destra, due passeggeri a sinistra. Fuori dall’oblò la superficie nera della pista d’atterraggio scorre come un nastro trasportatore. Mi chino verso il vetro e guardo il cielo; un coagulo di nuvole dense e polverose soffoca un tramonto sanguigno.
Perdiamo velocità e, procedendo a passo d’uomo, parcheggiaamo accanto ad altri tre velivoli.
Mi stiro, tiro uno sbadiglio, faccio un sorriso di circostanza alla signora francese seduta accanto. Aspettando che ci lascino sbarcare, mi chino un’altra volta verso l’oblò. Gli aerei parcheggiati sono tinti da un’insolita sfumatura amarognola, come se il vetro avesse un filtro seppia. Strabuzzo gli occhi, focalizzandomi sulle ali di un Airbus a una decina di metri.
Ma è sabbia!
Tutti i velivoli sono satinati con un sottile strato di sabbia beige.
Seguo il flusso di persone attraverso le porte scorrevoli. Entriamo in un androne con mura foderate da polverosi pannelli di radica, alabastro, marmi dai toni caldi e grandi lastre di granito nero ai pavimenti. Più che un aeroporto assomiglia a un fastoso hotel anni ‘50 caduto in disuso.
Incontro una fila di turisti stranieri fermi davanti a un bancone.
Dev’essere lì che si compra il visto.
Mi posiziono dietro all’ultima persona, aspettando con pazienza il mio turno.
“Next!” la voce dell’impiegato mi fa sussultare.
Mi accosto al bancone, con un tremore febbrile nelle mani appoggio sul davanzale i venticinque euro.