Egitto Tra le Dita

Intro

SABBIA

Capitolo 0
Una forte scossa mi sveglia di soprassalto. Mi guardo attorno. Una fila di sedili di fronte, un oblò a destra, due passeggeri a sinistra. Fuori dall’oblò la superficie nera della pista d’atterraggio scorre come un nastro trasportatore. Mi chino verso il vetro e guardo il cielo; un coagulo di nuvole dense e polverose soffoca un tramonto sanguigno.
 
Perdiamo velocità e, procedendo a passo d’uomo, parcheggiaamo accanto ad altri tre velivoli.
Mi stiro, tiro uno sbadiglio, faccio un sorriso di circostanza alla signora francese seduta accanto. Aspettando che ci lascino sbarcare, mi chino un’altra volta verso l’oblò. Gli aerei parcheggiati sono tinti da un’insolita sfumatura amarognola, come se il vetro avesse un filtro seppia. Strabuzzo gli occhi, focalizzandomi sulle ali di un Airbus a una decina di metri.
 
Ma è sabbia!
 
Tutti i velivoli sono satinati con un sottile strato di sabbia beige.
Seguo il flusso di persone attraverso le porte scorrevoli. Entriamo in un androne con mura foderate da polverosi pannelli di radica, alabastro, marmi dai toni caldi e grandi lastre di granito nero ai pavimenti. Più che un aeroporto assomiglia a un fastoso hotel anni ‘50 caduto in disuso.
 
Incontro una fila di turisti stranieri fermi davanti a un bancone.
Dev’essere lì che si compra il visto.
Mi posiziono dietro all’ultima persona, aspettando con pazienza il mio turno.
“Next!” la voce dell’impiegato mi fa sussultare.
Mi accosto al bancone, con un tremore febbrile nelle mani appoggio sul davanzale i venticinque euro. 

L’impiegato raccoglie i soldi e mi consegna un adesivo verdino, grande quanto una figurina. Mugugno un “thanks” e procedo verso il controllo immigrazione, il battito cardiaco sempre più in tiro.
Mi metto in fila, aspetto il mio turno. L’ufficiale dell’immigrazione fa cenno di avvicinarmi. Procedo con lentezza, dimostro una calma che non ho. Gli regalo un sorriso tirato e appoggio visto e passaporto sul davanzale del gabbiotto. Nota il tremore nelle mie mani. Mi fissa negli occhi. Rispondo con un debole sorriso. Senza staccarmi gli occhi di dosso, afferra il passaporto e lo sfoglia. Uno, due, tre, dieci volte. Alza gli occhi dal documento. Un’altra occhiata penetrante. Una vampata di agitazione mi infiamma il petto.
Sta a vedere che qua finisce come alla dogana in Marocco…
“Can you stand there, please?” indica il lato della sala dove tutti gli altri passeggeri stanno facendo la fila. Non faccio in tempo a rispondere che se ne va con il passaporto, scomparendo nei meandri dell’aeroporto.
Colombia, Cuba, Ecuador…
Ripasso i visti sul documento.
Nessuno di questi dovrebbe presentare problemi. Che altro c’è… Marocco, Turchia…bah!
L’agente ritorna senza il passaporto, si accomoda nel gabbiotto e fa segno al primo della fila di avvicinarsi. “Next!” e indica un altro passeggero. Un altro. E a un altro ancora. Perdo il conto. 
Il tremore alle mani diventa incontrollabile. Deglutisco a fatica, la gola è diventata un barile di sabbia. Un altro agente si avvicina al gabbiotto con in mano un passaporto rosso bordeaux e scambia due parole con l’ufficiale. Mi fa segno di avvicinarmi. Mi accosto al bancone, il battito cardiaco aumenta di velocità.

“First time in Egypt?”
“Yes.”
“Are you here for tourism?”
“Yes.”
I suoi occhi mi trapassano.

Mi mordo un’unghia, mi gratto un sopracciglio.

L’ufficiale timbra il passaporto e me lo riconsegna. Ringrazio e con un sospiro di sollievo supero il percorso obbligato.
Mi inoltro nella sala dei controlli bagagli. La suola delle scarpe scivola sul granito polveroso.
“Hello, where are you from?” una voce squilla alle mie spalle. Mi giro e mi trovo faccia a faccia con un signore sulla quarantina. Sguardo dispettoso, occhiali dalla montatura in acciaio, sorriso sarcastico e capelli che sembrano lana di vetro.
È sicuramente uno di quegli impostori che fregano turisti.
“No, thanks, I have no time.”
Volto le spalle e procedo verso la dogana. Una ragazza muscolosa con addosso una tuta e appeso al gomito un borsone sportivo è ferma davanti a una fila di sedili e si sta allacciando una scarpa. Capelli rasati ai lati, sguardo incisivo, sicuro di sé, al limite dello spocchioso. La riconosco, è la ragazza con cui avevo chiacchierato all’imbarco di Malpensa.
La raggiungo. “Ciao! Hai avuto anche tu problemi all’Immigrazione?“
Lei si volta, mi guarda, ma non risponde. Piega verso sinistra la testa, come per scrutare qualcuno dietro di me.

“Hello?” una voce nota risuona alle mie spalle.


Mi giro. Davanti a me c’è lo stesso signore di prima, stavolta accompagnato da altri due uomini dallo sguardo di ferro. Esibisce un tesserino scritto in arabo.

“We are police.”